Strategie di silenzio e volontà di parola
di Luigi M. Lombardi Satriani


Giuseppe Pitrè, recensendo la prima raccolta di racconti greco-calabresi di Luigi Bruzzano ed Ettore Capialbi, scrive: «abbiam detto che i bravi proff. Capialbi e Bruzzano forse non troveranno una parola di confronto nel loro paese, ed abbiam detto poco; scusandosi modestamente coi “pochi professori ai quali mandano questa prima raccolta” entrambi aggiungono: “essi ci compatiranno ove abbiamo errato, e ci loderanno, se non d’altro del nostro buon volere; il che sarà per noi larga ricompensa delle derisioni sofferte”.

Dunque non solo non hanno avuto incoraggiamento, ma peggio ancora - e questo è doloroso molto - sono stati derisi!…

È la solita storia di questa benedetta Italia, dove quel che non si capisce si disprezza, e dove solo a forza di grandissimo coraggio ed abnegazione si è riuscito a creare una letteratura popolare da pochissimi compresa, fraintesa da molti, compatita da tutti»[1].
Si è richiamato tale episodio per sottolineare quale fosse la temperie culturale della Monteleone ottocentesca, nella quale era ampiamente diffuso il senso della gerarchia delle forme culturali, con conseguente giudizio di irrilevanza verso quelle della fascia folklorica.
In una temperie così fortemente gerarchizzante era coerente che fossero operanti meccanismi di marginalizzazione e interdizione, ma tali tratti non sono esclusivi della Monteleone ottocentesca.

Lo stesso Pitrè, in una lettera a Raffaele Corso del 30 gennaio 1914, ricorda: «quando pubblicai le Fiabe, il “Corriere di Palermo” [ma si riferisce alla “Gazzetta di Palermo”] cominciò un articolo così: “il dottor Pitrè ha pubblicato quattro volumi di porcherie” e da clienti rispettabili mi si chiese come mi fossi permesso a farlo, affidandomi essi in cura le loro figliole»[2].
Se qui è stato richiamato il sistema di interdetti, censure e gerarchie di forme culturali, che veniva sistematicamente applicato nel nostro passato più o meno recente – ma chi potrebbe mai sostenere che interdetti, censure e gerarchie siano definitivamente scomparsi dall’orizzonte contemporaneo? – lo si è fatto per sottolineare che in maniera ancora più sistematica, sino all’ossessione, l’interdizione si abbatté sull’«osceno» nelle sue variegate formulazioni.
Si intende che ogni epoca costruisce le proprie mappe dell’oscenità, variamente configurandola, né costituisce un’affermazione peregrina l’affermazione barthesiana secondo la quale oggi la connotazione di oscenità, ritirata dalla sessualità, va a investire la sfera dei sentimenti e della loro esplicitazione.

Per quanto riguarda l’epoca che qui ci interessa, quell’ottocento nel quale Vincenzo Ammirà visse una significativa emarginazione, va ricordato che i demologi italiani, pur nella loro meritoria fatica, non rilevarono documenti di folklore erotico o, se li rilevarono, interiorizzarono la censura dominante al punto da tenerli inediti o, al massimo, a pubblicarli in altri Paesi, a volte sotto la copertura dell’anonimato.
È lo stesso folklorista palermitano – iniziatore, come è noto, degli studi demopsicologici italiani – ad ammettere: «il corpo delle tradizioni da noi raccoglitori presentato fin qui manca ancora di qualche cosa per potersi dire completo, manca dell’elemento cruptadico o scatologico, che è quanto dire libero. I popoli che noi abbiamo posti in evidenza per le loro costumanze e pratiche, e più per la loro letteratura orale, non hanno solo l’aspetto che mostrano, ma ne hanno un altro ben diverso, in faccia al quale abbiam dovuto per pudore abbassare gli occhi e fingere di non accorgercene».

Stanislao Prato, approfondito conoscitore del folklore toscano e umbro, scrisse dense Note ai racconti russi proibiti di Afanas’ev, ripubblicati in versione francese nel primo volume di «Kryptàdia», che nell’arco dal 1883 al 1888 e dal 1898 al 1911 pubblicò dodici volumi sul folklore erotico, a Heilbronn e a Parigi. Prato preferì celarsi nell’anonimato, al punto che le note ad Afanas’ev vennero attribuite da diversi studiosi a Giuseppe Pitrè. Soltanto recentemente Domenico Scafoglio, sulla base di argomentazioni estremamente persuasive, ha attribuito la paternità di esse al folklorista toscano.
Giovanni De Giacomo preparò per «Anthropophyteia» - la rivista che sotto la direzione di Federico Salomone Krauss venne pubblicata dal 1904 al 1914[3]  - una accurata descrizione di un’orgia rituale di uomini e animali, ma tale lavoro, mai apparso nella rivista perché essa aveva cessato le pubblicazioni, venne pubblicato nel nostro paese dopo circa sessant’anni[4].

La vita sessuale negli usi, nei costumi, nelle credenze e nelle consuetudini giuridiche del popolo italiano, indagata con rigore e spregiudicatezza da Raffaele Corso, fu l’oggetto dell’ultimo volume di supplemento di «Anthropophyteia»[5]. Tale opera risulta ancora oggi inedita in Italia; a metà degli anni Sessanta io stesso avevo deciso di curarne una traduzione, ma da parte di un’ordinaria di Storia delle tradizioni popolari mi venne affettuosamente consigliato di non occuparmene perché avrebbe danneggiato la mia figura di studioso e la mia carriera accademica. L’opera non venne pubblicata, non perché fosse accolto da me l’invito ma per una serie di vicissitudini, non solo editoriali; certo è ancora oggi tale opera non è pubblicata nel nostro paese, forse perché nonostante tutto ancora oggi è operante quel pregiudizio secondo il quale la scelta di un determinato oggetto di studi rivela una tendenziale identificazione con esso.

Accurate «note storiche su una demologia sommersa» sono fornite da Domenico Scafoglio nella sua Introduzione a un volume di Racconti erotici italiani[6]. Lo studioso rileva opportunamente che «non è del tutto esatto parlare in astratto – come spesso si è fatto – di assenza del folklore sessuale nella storia degli studi demo – antropologici. L’indagine sulle forme culturali della sessualità popolare costituisce […] l’oggetto di un filone di studi di dimensione europea e di indiscussa solidità, nell’impegno, se non nei risultati, che d’altra parte devono essere ancora adeguatamente vagliati. Ma è altrettanto doppia rimozione: la rimozione dell’oggetto folklorico in sé e quella dello sguardo che lo ha percepito; rimozione, quest’ultima, che ha condannato all’invisibilità completa una tradizione di indagini alla quale già l’ambigua collocazione tra la separatezza scientifica e la semi – clandestinità conferiva un incerto statuto esistenziale».

In questo quadro può suscitare meraviglia che La Ceceide avesse circolazione soltanto orale e a essa venissero riservati privati consensi e pubbliche esecrazioni? Vizi e privati e pubbliche virtù non costituisce, forse, modello di comportamento nazionale?
Ma non possiamo restare irretiti dalle maglie del discorso, pur opportuno, della censura inflitta alla Ceceide; occorre riflettere, anche se rapidamente, sui contenuti e sulle forme espresse da tale opera. Se così facessimo, rischieremmo di assumerla in un’esclusiva ottica di contrapposizione; sostenitori de La Ceceide solo perché altri – ma maggioranza – furono contro essa e il suo autore.

La Ceceide non è iscrivibile direttamente nella cultura folklorica, ché appartiene in pieno alla cultura d’élite, ma a quella popolare può essere rapportata, pur nella sottolineata differenza, per notevolissima analogia di temi, modalità e stilemi.
Il tema del testamento è ampiamente presente nelle culture etnologiche e folkloriche. Animali (asino, tacchino, altri animali domestici), Carnevale personificato pronunciano, prima della morte imminente, il loro testamento e il lascito di parti del proprio corpo a determinati personaggi è occasione per individuarne vizi e malefatte, veri o presunti. Tali testamenti venivano pronunciati pubblicamente, per cui la loro proclamazione parodistica è stata associata per analogia alla confessione pubblica dei peccati, secondo quanto è stato sottolineato da Paolo Toschi nella sua approfondita indagine su Le origini del teatro italiano[7].

La seconda parte dell’opera si apre con il tema del lamento funebre:«Ch’è ‘stu chiantu? ‘Stu lamentu? / Cu’ moriu? Chi fu? / Chi abbinni? / Viju fimmani, oh spaventu, / chi si sciuppanu li pinni, / tutti quanti scapijati, / cu li ganghi graccinati. / Via dicitimi, chi fu? / “Cecia, Cecia non c’è cchiù!”». Il lamento è affidato a trecento puttane pizzitane; ancora adesso nel dialetto calabrese si parla di ‘i ciangiulini d’u Pizzu, eredi storiche di quelle prefiche che cadenzarono nelle culture classiche il lamento funebre, istituto culturale essenziale per destorificare l’evento luttuoso, ponendo così le premesse per il suo trascendimento, secondo quanto ci ha mostrato esemplarmente l’indagine demartiniana.

L’ascesa al cielo, oltre che riferimento teologico – causa non ultima, in questo caso, dello scandalo suscitato dall’opera di Ammirà e della punizione a lui inflitta -, è tratto presente nella narrativa popolare. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla leggenda della madre di San Pietro, la cui anima viene portata in cielo, ma che, durante l’Ascensione, scuote i piedi per scrollare da sé tutte le altre anime che le si sono attaccate, sostenendo che solo lei ha il figlio in paradiso. Il suo egoismo viene però punito e per il suo agitarsi precipita anche lei nell’inferno.

La terza e l’ultima parte vede, in occasione dell’anniversario della morte di Cecia, il rinnovarsi dell’apoteosi della tropeana, esaltata nel ricordo da più di settecento puttane, che dalle città della Calabria, della Sicilia e da ogni altro paese accorrono per ricordarne momenti di vita e motivi di gratitudine. La calendarizzazione del dolore attraverso l’anniversario, l’omaggio di fiori e di lagrime, la ripetizione di momenti di vita dello scomparso o di suoi tratti caratterizzanti rientrano in quell’ideologia folklorica della morte oggetto di un lungo impegno di ricerca di Mariano Meligrana e mio[8].

In numerosi paesi calabresi, secondo tale ideologia, all’approssimarsi al cimitero di una bara, questa diviene sempre più pesante, perché a essa si aggrappano le anime dei familiari del defunto che sono andate ad accoglierlo. Come non pensare, al riguardo, a quei versi de La Rivigliade – altra opera di Ammirà – nei quali a Rivigghia, celebre puttana, si affiancano, in occasione della morte, altre due non meno celebri puttane, la stessa Cecia e Rosazza, la «gigantessa», della quale vengono esaltati «minnazzi, culu e fissa!»[9].
Come ha messo bene in luce Domenico Scafoglio, curando, assieme ad Antonio Piromalli, nel 1975, la prima edizione dell’opera: « “il diverso” della Ceceide è costituito dal codice sessuale rispecchiato nell’opera, che è quello delle classi subalterne di una società arcaica a sfondo contadino e che ha opposto una resistenza tenace alla discesa della morale cristiana (a cui si ispira l’etica sessuale delle classi “alte”), difendendo un suo modo di vivere la realtà del sesso e dell’amore.

Gli elementi di questo erotismo popolare si ritrovano, tutti, nella Ceceide: la designazione precisa degli organi sessuali per le quali la “pruderie” borghese ha creato le categorie pseudoscientifiche della “deviazione”; la fissazione dell’attenzione erotica agli organi genitali e alle zone erogene fondamentali; l’estrema naturalezza e innocenza, che esclude il senso cattolico del peccato e il gusto morboso dell’infrazione della norma; la metafora sessuale che rinvia continuamente (se non esclusivamente) al mondo naturale (la vulva è tana, tana, folìa, nido, patana, patata, pirunaci, prugna, ecc.); l’assenza totale di tenerezza, e la risoluzione di tutta la sessualità nell’atto coitivo, ossessivo, interminabile, violento (coire è azzippare, conficcare con violenza, ntrumbare, trombare, carcare, calcare; il coito è pistunata, cazzata, ecc.): tutto rinvia a quel mondo contadino che accetta pienamente il sesso, perché la vita sessuale fa parte della natura, non è né buona né cattiva, ma soltanto necessaria»[10].
Di questa assoluta contiguità culturale è emblematico l’invito che ci viene sia dai versi de La Ceceide: «futtiti tutti finca chi ncè lena, / la cotrara mu prega lu figghiolu / e cu’ no pemmu jè scumunicatu: / lu futtari pardeu non è peccatu», sia del wellerismo: «’u dissi santu Natu / ca ‘u futtiri non è peccatu».

Un’opera poetica va indagata, non soltanto per cosa dice ma per come lo dice.

Il discorso del poeta vibonese si sviluppa con intensa suggestione utilizzando immagini, metafore e assonanze, sfruttando tutta la pregnanza semantica del dialetto, organizzando una concatenazione di parole che conduce a esiti notevolissimi. E la poesia non è anche, forse soprattutto, produzione di parole connesse tra loro e piegate, per ciò, a delineare nuovi significati, nuovi scenari, nuovi orizzonti di praticabilità della parola?
La personalità e la produzione complessiva di Vincenzo Ammirà richiedono una attenta opera di rivisitazione critica, che le collochi adeguatamente nel panorama dell’intellettualità meridionale, troppo spesso oggetto essa stessa di interdetti, rimozioni e censure.
In questa prospettiva, la riedizione dell’opera più nota di Ammirà, quella di cui si è favoleggiato anche quando non la si è conosciuta, rappresenta un’iniziativa estremamente opportuna, se, come si spera, essa si pone come la prima di una serie di iniziative tese a quella collocazione critica di cui si è qui discorso.

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[1] L’opera recensita da Pitrè è: Racconti greci di Roccaforte, raccolti da E. Capialbi e da L. Bruzzano, fasc. I, Monteleone 1865. La recensione venne pubblicata in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», vol. V, 1886, pp. 139-140, e riprodotta nel volumetto: La Calabria – Rivista di letteratura popolare – Recensione e lettere di uomini illustri, tip. Passafaro, Monteleone 1892
[2] La lettera è riportata nel volume: R. Corso, reviviscenze – Studi di tradizioni popolari italiane, Libreria Tirelli di F. Guaitolini, Catania 1927, p. 4. Questa lettera, assieme a tutte le altre inviate a Corso dallo studioso siciliano, complessivamente 54, sono state pubblicate in «Folklore della Calabria», a, VII, n. I gennaio – dicembre 1962, pp. 9-58.
[3] In questo arco temporale apparvero, nell’ambito della rivista, dieci volumi ai quali si accompagnarono, precisamente, dal 1909 al 1914, sette volumi monotematici di supplemento, a cura di un solo autore. Vale la pena ricordare che del comitato direttivo facevano parte Ivan Bloch, Franz Boas, Sigmund Freud, Giuseppe Pitrè, Isak Robinson. L’indubbio prestigio scientifico di tali figure non evitò che Kraus venisse fatto oggetto, nel periodo precedente lo scoppio della prima guerra mondiale, di un processo, per cui 150 pagine del X tomo vennero giudicate immorali e il volume condannato alla distruzione.
[4] G. De Giacomo, La Farchinoria. Pervertimenti sessuali, credenze, usi e canti tradizionali erotici di alcuni pastori della Calabria, De Simone, Napoli 1972.
[5] Echi di tali vicende, che richiedono un approfondito discorso storiografico, che solo recentemente si è iniziato a svolgere, si ritrovano nell’ampia corrispondenza di Federico Salomone Krauss e Raffaele Corso con Raffaele Lombardi Satriani, ancora inedita, conservata nell’Archivio Storico Lombardi Satriani, San Costantino di Briatico.
[6] D. Scafoglio, Racconti erotici italianiLe raccolte storiche, vol. I, Meltemi, Roma 1996
[7] P. Toschi, Le origini del teatro italiano, Boringhieri, Torino, 1955.
[8] V. L. M. Lombardi Satriani – M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo, Sellerio, Palermo 1996.
[9] V. Ammirà, La Ngagghia e la Rivigliade, a cura di A. Piromalli – D. Scafoglio, Edizioni Brenner, Cosenza 1979.
[10] D. Scafoglio, L’osceno e la liberazione, in V. Ammirà, La Ceceide, a cura di A. Piromalli e D. Scafoglio, Athena, Napoli 1975, pp. 26-27.

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