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Giuseppe Pitrè, recensendo la prima raccolta di racconti greco-calabresi di Luigi Bruzzano ed Ettore Capialbi, scrive: «abbiam detto che i bravi proff. Capialbi e Bruzzano forse non troveranno una parola di confronto nel loro paese, ed abbiam detto poco; scusandosi modestamente coi “pochi professori ai quali mandano questa prima raccolta” entrambi aggiungono: “essi ci compatiranno ove abbiamo errato, e ci loderanno, se non d’altro del nostro buon volere; il che sarà per noi larga ricompensa delle derisioni sofferte”. Dunque non solo non hanno avuto
incoraggiamento, ma peggio ancora - e questo è doloroso molto - sono stati derisi!… Lo stesso Pitrè, in una lettera a
Raffaele Corso del 30 gennaio 1914, ricorda: «quando pubblicai le Fiabe,
il “Corriere di Palermo” [ma si riferisce alla “Gazzetta di
Palermo”] cominciò un articolo così: “il dottor Pitrè ha
pubblicato quattro volumi di porcherie” e da clienti rispettabili mi
si chiese come mi fossi permesso a farlo, affidandomi essi in cura le
loro figliole»[2]. Per quanto riguarda l’epoca che
qui ci interessa, quell’ottocento nel quale Vincenzo Ammirà visse
una significativa emarginazione, va ricordato che i demologi italiani,
pur nella loro meritoria fatica, non rilevarono documenti di folklore
erotico o, se li rilevarono, interiorizzarono la censura dominante al
punto da tenerli inediti o, al massimo, a pubblicarli in altri Paesi,
a volte sotto la copertura dell’anonimato. Stanislao Prato, approfondito
conoscitore del folklore toscano e umbro, scrisse dense Note
ai racconti russi proibiti di Afanas’ev, ripubblicati in versione
francese nel primo volume di «Kryptàdia», che nell’arco dal 1883
al 1888 e dal 1898 al 1911 pubblicò dodici volumi sul folklore
erotico, a Heilbronn e a Parigi. Prato preferì celarsi
nell’anonimato, al punto che le note ad Afanas’ev vennero
attribuite da diversi studiosi a Giuseppe Pitrè. Soltanto
recentemente Domenico Scafoglio, sulla base di argomentazioni
estremamente persuasive, ha attribuito la paternità di esse al
folklorista toscano. La vita sessuale negli usi, nei costumi, nelle credenze e nelle consuetudini giuridiche del popolo italiano, indagata con rigore e spregiudicatezza da Raffaele Corso, fu l’oggetto dell’ultimo volume di supplemento di «Anthropophyteia»[5]. Tale opera risulta ancora oggi inedita in Italia; a metà degli anni Sessanta io stesso avevo deciso di curarne una traduzione, ma da parte di un’ordinaria di Storia delle tradizioni popolari mi venne affettuosamente consigliato di non occuparmene perché avrebbe danneggiato la mia figura di studioso e la mia carriera accademica. L’opera non venne pubblicata, non perché fosse accolto da me l’invito ma per una serie di vicissitudini, non solo editoriali; certo è ancora oggi tale opera non è pubblicata nel nostro paese, forse perché nonostante tutto ancora oggi è operante quel pregiudizio secondo il quale la scelta di un determinato oggetto di studi rivela una tendenziale identificazione con esso. Accurate «note storiche su una demologia sommersa» sono fornite da Domenico Scafoglio nella sua Introduzione a un volume di Racconti erotici italiani[6]. Lo studioso rileva opportunamente che «non è del tutto esatto parlare in astratto – come spesso si è fatto – di assenza del folklore sessuale nella storia degli studi demo – antropologici. L’indagine sulle forme culturali della sessualità popolare costituisce […] l’oggetto di un filone di studi di dimensione europea e di indiscussa solidità, nell’impegno, se non nei risultati, che d’altra parte devono essere ancora adeguatamente vagliati. Ma è altrettanto doppia rimozione: la rimozione dell’oggetto folklorico in sé e quella dello sguardo che lo ha percepito; rimozione, quest’ultima, che ha condannato all’invisibilità completa una tradizione di indagini alla quale già l’ambigua collocazione tra la separatezza scientifica e la semi – clandestinità conferiva un incerto statuto esistenziale». In questo quadro può suscitare
meraviglia che La Ceceide
avesse circolazione soltanto orale e a essa venissero riservati
privati consensi e pubbliche esecrazioni? Vizi e privati e pubbliche
virtù non costituisce, forse, modello di comportamento nazionale? La
Ceceide non è iscrivibile
direttamente nella cultura folklorica, ché appartiene in pieno alla
cultura d’élite, ma a quella popolare può essere rapportata, pur
nella sottolineata differenza, per notevolissima analogia di temi,
modalità e stilemi. La seconda parte dell’opera si apre con il tema del lamento funebre:«Ch’è ‘stu chiantu? ‘Stu lamentu? / Cu’ moriu? Chi fu? / Chi abbinni? / Viju fimmani, oh spaventu, / chi si sciuppanu li pinni, / tutti quanti scapijati, / cu li ganghi graccinati. / Via dicitimi, chi fu? / “Cecia, Cecia non c’è cchiù!”». Il lamento è affidato a trecento puttane pizzitane; ancora adesso nel dialetto calabrese si parla di ‘i ciangiulini d’u Pizzu, eredi storiche di quelle prefiche che cadenzarono nelle culture classiche il lamento funebre, istituto culturale essenziale per destorificare l’evento luttuoso, ponendo così le premesse per il suo trascendimento, secondo quanto ci ha mostrato esemplarmente l’indagine demartiniana. L’ascesa al cielo, oltre che riferimento teologico – causa non ultima, in questo caso, dello scandalo suscitato dall’opera di Ammirà e della punizione a lui inflitta -, è tratto presente nella narrativa popolare. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla leggenda della madre di San Pietro, la cui anima viene portata in cielo, ma che, durante l’Ascensione, scuote i piedi per scrollare da sé tutte le altre anime che le si sono attaccate, sostenendo che solo lei ha il figlio in paradiso. Il suo egoismo viene però punito e per il suo agitarsi precipita anche lei nell’inferno. La terza e l’ultima parte vede, in occasione dell’anniversario della morte di Cecia, il rinnovarsi dell’apoteosi della tropeana, esaltata nel ricordo da più di settecento puttane, che dalle città della Calabria, della Sicilia e da ogni altro paese accorrono per ricordarne momenti di vita e motivi di gratitudine. La calendarizzazione del dolore attraverso l’anniversario, l’omaggio di fiori e di lagrime, la ripetizione di momenti di vita dello scomparso o di suoi tratti caratterizzanti rientrano in quell’ideologia folklorica della morte oggetto di un lungo impegno di ricerca di Mariano Meligrana e mio[8]. In numerosi paesi calabresi, secondo
tale ideologia, all’approssimarsi al cimitero di una bara, questa
diviene sempre più pesante, perché a essa si aggrappano le anime dei
familiari del defunto che sono andate ad accoglierlo. Come non
pensare, al riguardo, a quei versi de La
Rivigliade – altra opera
di Ammirà – nei quali a Rivigghia, celebre puttana, si affiancano,
in occasione della morte, altre due non meno celebri puttane, la
stessa Cecia e Rosazza, la «gigantessa», della quale vengono
esaltati «minnazzi, culu e fissa!»[9]. Gli elementi di questo erotismo
popolare si ritrovano, tutti, nella Ceceide:
la designazione precisa degli organi sessuali per le quali la
“pruderie” borghese ha creato le categorie pseudoscientifiche
della “deviazione”; la fissazione dell’attenzione erotica agli
organi genitali e alle zone erogene fondamentali; l’estrema
naturalezza e innocenza, che esclude il senso cattolico del peccato e
il gusto morboso dell’infrazione della norma; la metafora sessuale
che rinvia continuamente (se non esclusivamente) al mondo naturale (la
vulva è tana, tana, folìa,
nido, patana, patata, pirunaci,
prugna, ecc.); l’assenza totale di tenerezza, e la risoluzione di
tutta la sessualità nell’atto coitivo, ossessivo, interminabile,
violento (coire è azzippare,
conficcare con violenza, ntrumbare,
trombare, carcare, calcare;
il coito è pistunata,
cazzata, ecc.): tutto rinvia a quel mondo contadino che accetta
pienamente il sesso, perché la vita sessuale fa parte della natura,
non è né buona né cattiva, ma soltanto necessaria»[10]. Un’opera poetica va indagata, non soltanto per cosa dice ma per come lo dice. Il discorso del poeta vibonese si
sviluppa con intensa suggestione utilizzando immagini, metafore e
assonanze, sfruttando tutta la pregnanza semantica del dialetto,
organizzando una concatenazione di parole che conduce a esiti
notevolissimi. E la poesia non è anche, forse soprattutto, produzione
di parole connesse tra loro e piegate, per ciò, a delineare nuovi
significati, nuovi scenari, nuovi orizzonti di praticabilità della
parola? ----------------------------------- [1]
L’opera recensita da Pitrè è: Racconti
greci di Roccaforte, raccolti da E. Capialbi e da L. Bruzzano,
fasc. I, Monteleone 1865. La recensione venne pubblicata in «Archivio
per lo studio delle tradizioni popolari», vol. V, 1886, pp.
139-140, e riprodotta nel volumetto: La
Calabria – Rivista di letteratura popolare – Recensione e
lettere di uomini illustri, tip. Passafaro, Monteleone 1892 |