Note di
Leonardo Sciascia
Tratto da:
Centro
Studi Storico-Sociali Siciliani
Con Ignazio Buttitta non c'era da
aspettare: la sua presenza era immediatamente quella del poeta: nel
fisico, nello sguardo, nel movimento di togliersi e rimettersi gli
occhiali o di portarseli sulla fronte (un movimento che sembrava
adeguarsi non ad una esigenza puramente oculistica, ma a un vedere
interno, a un rapporto con le cose interiormente scelto, a una
collocazione di esse in una prospettiva ad ogni momento inventata e
rinnovata); e in tutto quello che diceva, in tutto quello che
raccontava, di sè e degli altri, di Bagheria e del mondo, delle cose di
ogni giorno, del libro che aveva appena letto, di una conversazione col
cocchiere di piazza a Palermo o col grande poeta Mosca, dell'incontro
con un vecchio contadino o con un professore o con un mafioso: tutte le
cose straordinarie che gli capitavano.
Nel suo raccontare tutto è un'immagine, metafora, ritmo. E procede per
sprazzi, per improvvise illuminazioni di particolari, di dettagli; e con
iterazioni ugualmente improvvise: ingorghi che doveva far defluire, nodi
che si dovevano sciogliere, rappresentazioni del fatto, del personaggio,
della cosa da penetrare, da svelare. E se più volte raccontava la
stessa cosa, a distanza di giorni o di anni, inalterabilmente si
succedevano quelle immagini, quelle metafore, quel ritmo, quelle
iterazioni misteriose e sospensive. Perchè Buttitta scriveva tutto - o
forse, per dirla con Hemingway-, erano le cose che scrivevano Buttitta;
e la sua opera propriamente scritta, materialmente scritta - i suoi
manoscritti, i suoi libri - non è che una parte del Buttitta scritto
che era poi l'intera sua esistenza, l'intera sua esperienza, la sua
memoria, i suoi sensi.
E si direbbe che l'avvenimento
della scrittura realizzata, del nero su bianco, delle parole sulla
carta, sia stato per lui incidentale e fortuito, e quasi una
costrizione. Una necessità e una convenienza: perchè la poesia va
detta e non costretta su una pagina, sigillata in un libro; comunicata
da uomo a uomo, da uomo agli uomini, con la voce, il gesto, lo sguardo,
le pause, le sospensioni, il respiro, il registro, il timbro.
Platone temeva la scrittura in
quanto comunicazione che è scelta, da chiunque è in condizione di
acquistare e leggere un libro, e non sceglie, come invece sceglie il
discepolo o l'interlocutore colui che comunica oralmente;
Ignazio faceva una lettura
silenziosa, come se avesse un rapporto possessivo ed esclusivo con la
sua poesia, leggendola con la voce che gli diveniva fioca con facilità.
Quando gli domandavano la poesia da leggere con gli occhi, con un certo
disappunto, ogni volta diceva: "Anche Elio Vittorini voleva
prima leggere con gli occhi", quasi che quello degli occhi sia
un modo strano di leggere, poichè la vera lettura è quella che si
ascolta, quella che viene dalla voce del poeta, inseparabilmente,
unicamente.
Non è che diffidava della
scrittura: è che riteneva assolutamente indissolubile da sè, dalla sua
vita, dal suo corpo, dalla sua voce, quel raccontare al mondo, quel
goderlo e soffrirlo e ribellarsi che è la sua poesia.
Da ciò la sua sprezzatura delle regole, codificazioni, e convenzioni
grammaticali e ortografiche; la sua invenzione del dialetto siciliano
secondo la voce e senza tener conto della maggiore o minore leggibilità
che la sua trascrizione offre. Ogni facilitazione alla voce, sembra dica
Buttitta; gli occhi, se non chiedono aiuto alla voce, se la sbrighino
come possono. D'altra parte, questa è, peculiarmente, la radice
popolare e contadina della sua poesia: la poesia che è parola-voce, il
poetare che coincide con l'esistere, estemporaneamente e quasi
fisiologicamente. Non c'è momento dell'esistenza - il più duro lavoro
o il riposo, la gioia o l'affanno, il miele o il fiele, il lutto o la
festa - che non possa essere calato in ritmi e rime, liberarsi cioè in
un fatto mnemonico, diventare, insomma, pura memoria (la Memoria
che era madre alle muse). E perciò la disponibilità di Buttitta, come
gli antichi poeti del mondo contadino, come certi poeti estemporanei.
Egli esprimeva poesia da qualsiasi fatto, da qualsiasi cosa: non,
beninteso, in senso propriamente occasionale o celebrativo, ma sempre
immediatamente attingendo al più giusto e sicuro sentimento e giudizio,
alle proprie convinzioni, ai propri intendimenti.
Non è, come nel Paradoxe di
Diderot, la disponibilità di un'anima che "a
été formée de l'élément subtil dont notre philosophe remplissait l'espace
qui n'est ni pesant, ni léger, ni froid, ni chaud, qui n'affecte aucune
forme déterminée, et qui, également susceptible de toutes, n'en
conserve aucune", ma, al contrario appunto, di una
personalità che considera il mondo tanto fluido da arrenderlo, in ogni
momento e in ogni caso, alla propria forma e memoria.
La prescrizione flaubertiana -
"il poeta deve simpatizzare con tutto e con tutti" - si ha
l'impressione, leggendo (ascoltando) le poesie di Buttitta, che si sia
effettualmente rovesciata, e che tutto e tutti simpatizzano con lui.
Le radici popolari e contadine della poesia di Buttitta,non fanno di lui
un poeta popolare se non nel senso di poeta che sta dalle parte del
popolo. Anche nelle cose che sembrano più corsive e conviviali, e forse
maggiormente in queste, è convenientemente "difficile": e
anzi quanto più precario e instabile è il punto da cui muove la sua
composizione poetica, quanto più il ritmo e la rima sembrano
affrancarlo dalla ragione ed esaltarlo, tanto più la poesia trova
equilibri sottili ed ardui, interne e profonde ragioni. Nei suoi scritti
c'è, alta su tutto, la coscienza: e tutto vi si devolve e confessa - i
sensi, l'impegno, l'ideologia, l'ars poetica, la parola stessa. E senza
assoluzione.
Leonardo Sciascia
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